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AMORE E YOGA

Scritto da Marco Ferrini

Yoga è sia il mezzo per conquistare l’Amore sia il fine, ovvero l’Amore stesso. Raggiungere l’Amore significa raggiungere Dio. Il Narada Bhakti Sutra, uno dei testi della tradizione del Bhakti Yoga, dice proprio così: “Dio è Amore e Amore è Dio”.

Lo Yoga è lo strumento per gestire i sensi e la mente. Senza questo lavoro preliminare la meta finale – l’esperienza dell’Amore – è preclusa. Quando l’individuo non riesce a gestire i sensi e la mente, vive l’esperienza della caduta, dell’errore, del disordine e della disarmonia e prova una profonda insoddisfazione. Finché non impariamo a gestirli, i sensi ci portano in modo coatto ad attaccarci smodatamente alle apparenze, e l’anima soffre perché aspira a ben più reali e alte mete, a ben altri gusti. Nella Bhagavad Gita Arjuna chiede a Krishna: “Cosa spinge una persona a sbagliare, anche contro la sua volontà come vi fosse costretto?” (III, 36). Il Maestro risponde così al discepolo-guerriero: “È lussuria soltanto […] in seguito si trasforma in collera ed è il grande peccato che tutto divora, il peggiore dei nemici” (III, 37).

“Lussuria” traduce il termine sanscrito kama che non ha una connotazione esclusivamente sessuale, bensì include ogni bramosia, ogni desiderio ardente, insaziabile “che brucia come il fuoco” (III, 38). Esso si annida nei sensi, nella mente e nell’intelligenza, e allontana la persona dalla vera conoscenza, confondendola (III, 40). Il Maestro esorta il discepolo ad “annientare questo devastatore della conoscenza e della realizzazione spirituale” (III, 41), a “conquistare il nemico insaziabile, la lussuria” (III, 43).
Cambiamo tempo, luogo e scenario. Nella Divina Commedia, Dante si ri-trova all’uscita dalla selva oscura e, vedendo in lontananza il bel colle illuminato, dirige il passo verso l’agognata meta, quando gli si para davanti la “lonza a la gaietta pelle”. È sempre kama: una fiera sinuosa ed elegante, che non uccide però blocca e non fa avanzare sul cammino spirituale. Dopo di lei arrivano altre due belve: il leone e la lupa, che simboleggiano la collera e l’avidità. Anche nella Bhagavad Gita, kama si tira dietro kroda (collera) e loba (avidità). Gli anartha nella tradizione dello Yoga e i vizi capitali nella spiritualità cristiana sono gli ostacoli all’esperienza dell’Amore.
Rimuovere questi ostacoli è il compito del vero yogi che, nella Gita, viene considerato “più elevato dell’asceta, più elevato del filosofo, più elevato di colui che aspira ai frutti dell’azione”. Ancora il Maestro esorta il discepolo: “Perciò in ogni circostanza sii uno yogi, o Arjuna” (VI, 46).
Essere uno yogi, dunque, significa aver intrapreso la lotta spirituale per sbaragliare le parti “ombra” di sé. Per la scienza dello Yoga, come per la Divina Commedia, non c’è nessuna guerra da combattere all’esterno, perché gli unici avversari che abbiamo sono quelli annidati nella nostra coscienza condizionata. Cuore e mente vanno dunque purificati, ripuliti dalle scorie, da abitudini e convinzioni errate, da pensieri irragionevoli, da pretese e aspettative, da emozioni disturbanti, dai vizi che distorcono la nostra percezione della realtà e ci impediscono l’esperienza mistica: il vedere, il sentire, il sapere che tutto è Dio, tutto è Amore. “Il vero yogi Mi vede in tutti gli esseri e vede tutti gli esseri in Me. Così l’anima realizzata Mi vede dappertutto” (VI, 29).

Non è un cammino che si può fare da soli. Dante ebbe bisogno di Virgilio, come guida; e Arjuna di Krishna. Ed erano due uomini eccezionali, molto dotati sotto il profilo umano, culturale e spirituale. Eppure entrambi si trovarono bloccati dalla paura in quel campo di battaglia che è la vita incarnata ed ebbero bisogno di affidarsi ad un Maestro. Un Maestro realizzato dà al discepolo una disciplina spirituale (sadhana) e gli mostra la via da percorrere, segnalandogli i passaggi più ardui, anticipandogli i pericoli, infondendogli coraggio, verificandolo e correggendolo, aiutandolo a rialzarsi quando lo vede cadere. Gli dà soprattutto un esempio di vita, la testimonianza che si può superare l’oceano di maya, la potentissima energia del fenomenico che illude, condiziona e incatena.

Nella tradizione del Bhakti Yoga, lo Yoga dell’Amore, la sadhana consiste nella recita quotidiana del mantra e in altre pratiche rituali che rafforzano la presenza di Dio nella vita del sadhaka. Anche in altre tradizioni, ci sono la meditazione silenziosa, la preghiera, il rito.

Queste tecniche non sono fini a se stesse, sono solo il mezzo per purificare il cuore e arrivare a gestire la mente e i sensi. Possono servire molte vite per raggiungere la perfezione, dice la Bhagavad Gita, ma “chi si sforza sinceramente di progredire sulla via della realizzazione spirituale” “accede infine alla destinazione suprema” (VI, 45). E questa destinazione è l’Amore, la prema-bhakti, la comunione (yoga) con Dio.

Non è una meta destinata solo a pochi poiché tutti in potenza siamo Amore puro. Serve però un lavoro per poter tradurre in atto questa potenzialità. Non tutti sono disposti a fare tale investimento perché richiede energie e impegno costante. Ma la gioia intensa che ne deriva – e non alla fine del percorso ma ogni giorno in cui si cammina su questo sentiero – ripaga di ogni sacrificio. Sacrificio del resto viene dal latino sacer più facere e significa rendere sacro. A una vita resa sacra e illuminata dall’Amore si accede dunque attraverso il “sacrificio” dello Yoga, il viaggio più straordinario che si possa fare.


ARTICOLO DI MARCO FERRINI PUBBLICATO SULLA RIVISTA VIVERE LO YOGA n° 86,  APRILE-MAGGIO 2019

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