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LA FORMA DELLO SPIRITO - L’in-finitezza della Pietà Rondanini tra la vita e la morte di Michelangelo | Seconda parte


Pietà Rondanini, 1552-1564, Milano, Castello Sforzesco

Il 12 febbraio 1564, all’età di 89 anni, Michelangelo Buonarroti lavora i suoi ultimi colpi di scalpello al duro marmo che racchiude la più intima e commovente delle sue opere, suo massimo testamento artistico e spirituale: la Pietà, che sarà poi conosciuta come Rondanini.
Da anni l’artista si dedica alla scultura quasi esclusivamente a scopi personali e il tema della Pietà lo assorbe tanto da immaginare di collocare tale rappresentazione sulla sua stessa sepoltura.
Tra i tanti avvenimenti che segnano la vita dell’uomo, quello della perdita della madre all’età di soli sei anni (siamo nel 1481), può aiutarci a spiegare l’irresistibile attrazione dell’artista per un’iconografia che gli permette di idealizzare il sentimento di un Amore puro, nella tragica consapevolezza di un’irrimediabile separazione.
La storia della Pietà Rondanini, oggi conservata nel Museo del Castello Sforzesco di Milano, è lunga e travagliata, ed è emblematica di quella inarrestabile lotta al superamento che per molti aspetti caratterizza la vita e l’opera del grande Michelangelo.
Intorno al 1552, a cinquantatré anni di distanza dalla giovanile commissione vaticana della Pietà, l’artista si accinge a lavorare su un blocco di marmo dalle caratteristiche spiccatamente verticali, concependo di realizzare un’opera dall’impianto iconograficamente rivoluzionario che, probabilmente, rappresentava la vergine Maria che sostiene il figlio da dietro, reggendolo per le ascelle.
Solo qualche anno dopo, dal 1554 circa, questa spinta innovativa risultava già insufficiente all’artista che, ormai quasi ottantenne e libero da ogni considerazione di convenienza, era intensamente dedicato a una ricerca linguistica che gli permettesse di esprimere al meglio le sue più alte realizzazioni e aspirazioni. Sul ceppo della precedente opera, Michelangelo elaborò, infatti, una nuova versione, rimettendo in discussione l'intera scultura. I segni di questo passaggio sono evidentissimi nel diverso trattamento delle gambe del Cristo, rispetto a quello del torso e dei volti; e nel braccio destro che si stacca, sproporzionato, dal corpo della statua.
Il vecchio Michelangelo non sente l’esigenza di abbandonare l’opera precedente e di intraprendere un nuovo lavoro, ma interpreta piuttosto la crisi artistica che lo attraversa nel segno della continuità, come intimamente consapevole di quella naturale condizione dell’uomo per cui il passato non può essere negato e rimosso, ma accettato come materiale di base per progressivi aggiustamenti. Il risultato è di una potenza espressiva straordinaria e al contempo di una delicatezza e raffinatezza indicibili.


Schiavo che si ridesta, 1525-1530, Firenze, Galleria dell'Accademia

Il confronto con i Prigioni, scolpiti circa trenta anni prima, ci permette di ricavare suggestioni affascinanti. In queste opere, l’artista sembra voler rappresentare l’emergere della coscienza dalla vischiosa presa di una psiche condizionata da desideri e concezioni egoiche; una psiche che non è collegata alla superiore e autentica realtà dello Spirito,1  quanto piuttosto ai sensi e alle loro capricciose esigenze: la ragion da l’ali corte, descritta da Dante nel secondo canto del Paradiso. Seppure con un linguaggio straordinariamente inusitato e innovativo, Michelangelo ribadisce il concetto rinascimentale di matrice neoplatonica della persona che, con la luce della conoscenza, riconquista faticosamente la pienezza del suo esistere: un emergere dalle tenebre alla luce, dal non senso alla consapevolezza, dal non essere all’essere, dall’indistinto alla forma.
Nella Pietà Rondanini possiamo scorgere un passaggio ulteriore. Qui è proprio la forma ad essere il punto di partenza, la base da cui una realtà ulteriore, come fiamma, s’innalza. Qui il concetto di non-finito, tipico del linguaggio maturo dello scultore, inverte il suo senso. Se in precedenza aveva rappresentato la permanenza di elementi d’impurità dai quali faticosamente la figura-persona cercava di divincolarsi, ora è come una dichiarazione d’impotenza del divino Michelangelo che, come Dante fece prima di lui, rinuncia alla pretesa di manifestare compiutamente nell’opera una dimensione che pur’ è, oramai, dimora del suo cuore. Michelangelo con umiltà si arrende e ammette in pieno l’ “indicibilità” di dantesca memoria.2
Trascorre quasi dieci anni a dettagliare ogni minima particella della pietra,3  ma la soave per quanto rigorosa voce della coscienza non gli permette di valicare il limite dell’arroganza e d’imporre a quel marmo una forma che diverga dalla suprema delicatezza della sua visione interiore. Il risultato è il primo “sfumato” marmoreo della storia dell’arte occidentale e un’immagine del più dolce e ineffabile sentimento spirituale (in sanscrito rasa).
Possiamo dunque dire che dalla perfezione della forma, scaturisce la fiamma del sentimento, che non è più chiara consapevolezza della propria autentica natura, come nei Prigioni, ma pura aspirazione d’Amore in moto ascensionale.
Facciamo due passi indietro e torniamo alla giovanile Pietà Vaticana, del poco più che ventenne Michelangelo. Al tempo l’artista era completamente imbevuto della cultura neoplatonica della corte di Lorenzo il Magnifico e la sua aspirazione a una bellezza ideale si esprime in un levigato e in un rifinito che vogliono superare ogni imperfezione e corruttibilità del sensibile. Dunque, a quest’altezza della sua maturazione artistica, egli interpreta la dinamica filosofica e linguistica della relazione tra materia e forma (dravya-rupa), nel senso di una piena manifestazione nella pietra della sublime Realtà dello spirito. Realtà che, dunque, vince sui limiti intrinseci del provvisorio e del transeunte, in un’auspicata, per quanto inarrivabile coincidenza tra messaggio e linguaggio, tra contenuto e forma; materia che sfugge e si sublima nel sentimento puro.
Nello svilupparsi della sua riflessione, lungo il sentiero evolutivo della produzione artistica, Michelangelo approda ad altre conclusioni. La dinamica della liberazione dell’essenza spirituale dalla sostanza materiale acquisisce una coloritura più intensa e agli ideali giovanili pare seguire una maggiore consapevolezza della drammaticità della condizione incarnata dell’essere vivente. Nei Prigioni l’identità spirituale non trionfa incontrastata, ma è piuttosto impegnata in un’intensa lotta con le forze titaniche e paralizzanti dei condizionamenti inconsci e delle false identificazioni. Questa nuova sensibilità per la dinamica tra materia e spirito si esprime in forme plastiche intrappolate nella sostanza indefinita della pietra, come vita intrappolata nell’oblio, tutta tesa nello sforzo del risveglio e della liberazione. Il messaggio, dunque moltiplica il suo declinarsi; o meglio, rende più evidente quelle tre dimensioni che pure, con uno sguardo retrospettivo, possiamo cogliere anche nella Pietà Vaticana: la trascendenza, l’immanenza, e la drammatica lotta tra le due realtà che, mentre nei Prigioni costituisce il cuore della rappresentazione, nell’opera precedente è solo suggerita dall’intenso lavoro di rifinitura e trasformazione della materia nel più idoneo veicolo alla manifestazione del contenuto.
Nell’ultima opera, che segna il più alto raggiungimento artistico di Michelangelo, un’ulteriore dimensione sembra affacciarsi, e l’artista, che la sente nascere dentro di sé nel corso del suo operare e vivere, è chiamato a nuova creatività. Nella Pietà Rondanini torna l’esigenza di dar forma a una trascendenza assoluta, sganciata da qualsiasi invischiamento con il relativo e il transeunte. Torna il desiderio di dar forma al sentimento spirituale. Ma questa volta la dinamica della lotta pare trascesa. Non c’è più la lotta dell’artista con la materia, come nella Pietà Vaticana; non c’è più la lotta della figura con l’informe, come nei Prigioni. L’artista si abbandona e per dieci anni, fino a pochi giorni prima della sua morte, entra in una dinamica di umile e consapevole resa a due forze che lo sovrastano, e che desiderano sposarsi nel suo operare: materia e spirito si congiungono in una pace che è la stessa che alberga nel cuore mistico del vecchio Michelangelo.
Il non-finito è qui l’inestinguibile differenza tra significato e significante, tra impercettibile e percettibile, tra inconcepibile e concepibile. Il non-finito è qui divino Amore, pura bhakti che stilla nel cuore di un uomo, il quale la coltiva tornando con reverenza e devozione a servire quelle forme che misericordiosamente e gradualmente gli si rivelano. Sarà difficile trovare un’altra opera che possa esprimere una così intima e vibrante spiritualità. La Pietà Rondanini è preghiera e sublime meditazione, che s’interrompe solo nel momento in cui il suo autore è chiamato ad abbandonare le sue spoglie mortali.

1 cfr. Bhagavad-gita 2.50: "La persona la cui intelligenza è collegata alla dimensione trascendente si libera in questa stessa vita dalle conseguenze delle azioni buone o malvage."
2 Paradiso, canto primo, versi 4-6: "Nel ciel che più de la sua luce prende/fu’ io, e vidi cose che ridire/né sa né può chi di là sù discende."
3
Nel 1561 ne farà dono al suo fedele servitore Alessandro del Francese, eppure ancora per anni è impegnato nella sua lavorazione.

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