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Michelangelo e Savonarola

Insegnerò ai traviati le tue vie,

perché gli empi facciano a Te ritorno.

Salmo LI.13 

Nel 1489 Lorenzo dei Medici, quasi certamente su suggerimento di Giovanni Pico della Mirandola, scrisse al generale dei frati predicatori del monastero di Santa Maria degli Angeli di Ferrara, “che mandasse a Firenze fra Girolamo”. 

Figura 18. Fra’ Bartolomeo, Ritratto di Girolamo Savonarola, post 1498, Museo di San Marco, Firenze.

La Firenze del tempo era la città dove si stavano sviluppando in parallelo il moderno sistema bancario e il Rinascimento: Denaro e Bellezza, economia e arte. È qui che si concretizza la ricerca della rappresentazione dello spazio e della mimesi realistica, attraverso regole matematiche e scientifiche che esprimono la nuova concezione del dominio dell’intelletto umano sulla realtà circostante. A Firenze, tra il Tre e il Quattrocento, si assiste a una forte crescita della domanda di arte, voluta dal nuovo ceto dirigente mercantile, che vede nella committenza artistica una fonte di prestigio sociale: è così che il denaro si affranca dalla volgarità e dal peccato. La stessa famiglia Medici esprime al massimo livello questa realtà, fondando la propria influenza politica sul potere economico e finanziario, che gli deriva da una delle banche più prestigiose del mondo. Assume così il governo della città, promuovendo in misura fuori del comune e per diverse generazioni la vita artistica, culturale, spirituale e scientifica del loro tempo.

Le prime lezioni che Savonarola tenne a Firenze preso il convento domenicano di San Marco furono subito interpretate da tutti gli ascoltatori come vere e proprie predicazioni, nelle quali il colto frate formulava la necessità immediata di un rinnovamento e della penitenza della Chiesa, e non temeva di accusare governanti e prelati, ma anche filosofi e letterati, viventi e antichi. Per il suo irrefrenabile anelito alla giustizia e per l’aspirazione a un governo della città libero e popolare che potesse manifestare la volontà di Dio, Savonarola si guadagnò subito il favore dei semplici, dei poveri e degli scontenti, ma anche degli oppositori della famiglia de' Medici. Per la chiarezza del suo linguaggio e per l’altezza della sua ispirazione si conquistò l’apprezzamento “dei più nobili della città”, tra i quali il Poliziano, Pico della Mirandola e il Botticelli. Il mercoledì di Pasqua del 1491 predicò a Palazzo Vecchio davanti alla Signoria, affermando che il bene e il male d'una città provengono dai suoi capi, i quali, superbi e corrotti, sfruttano i poveri, impongono tasse onerose e falsificano la moneta.

Al tempo dei fatti Michelangelo, appena adolescente, era stato introdotto nell’ambiente mediceo. Sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico aveva potuto frequentare personalità quali quelle del Poliziano, di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, che lo resero partecipe della dottrina neoplatonica e dell'amore per la rievocazione dell'antico.  La loro influenza culturale e spirituale, però, non fu così rilevante per il giovane artista come quella esercitata dal Savonarola. Tra il 1490 e il 1494 Michelangelo fu assiduo frequentatore delle accalorate prediche del frate, e questa esperienza segnò in maniera indelebile la sua coscienza, favorendo in lui lo sviluppo di una religiosità senza compromessi, schiva e austera, e in polemica nei confronti della Chiesa ufficiale.  Al pari di molti artisti dell'epoca, abbracciò i nuovi valori spirituali e sociali di Savonarola, e il rigorismo formale dei sermoni del frate accese in lui i primi dubbi sul valore etico da dare all'arte, orientandola su soggetti sacri, descritti con un linguaggio coerente che ne rispecchiasse le aspirazioni trascendentali.

Fu questo nuovo impulso che accese in lui la polemica contro la pura speculazione filosofica in nome di un’esperienza di carattere mistico, e l’equivalente polemica contro l’aritmetica e la geometria, e quindi contro i padri della prospettiva quali l’Alberti e gli artisti del primo Quattrocento. Una sua opera del 1491 illustra in maniera significativa la visione che Michelangelo aveva sviluppato in quegli anni. La Madonna della Scalarivela immediatamente i nuovi interessi del geniale artista rispetto ai modelli della sua formazione, da quelli rinascimentali a quelli della classicità greco-romana. Nel suo rigore, spoglio di ogni elemento accessorio, la figura si staglia in tutta la sua solennità sul vuoto di uno spazio prospettico negato, che non lascia nessun posto alla visione in profondità. L’interesse dell’artista e dello spettatore è tutto rivolto alla persona nella sua interiorità, e l’ambiente non ha altra funzione se non quella di contenere la figura. È la negazione dei principi formali e ideologici su cui si era fondata l’arte italiana di tutto il Quattrocento, che nello spazio prospettico identificava l’elemento vitale in cui la figura dell’uomo trovava la ragione del suo apparire.

Figura 19. Michelangelo, Madonna della Scala, 1491, Casa Buonarroti, Firenze. 

Nell’ottobre del 1494 Michelangelo si allontanò dalla città, prevedendo i rivolgimenti politici che di lì a poco avrebbero portato alla cacciata dei Medici e all’istaurazione di un governo popolare ispirato e animato da Girolamo Savonarola. Il seme dell’insegnamento era però stato gettato, e sarebbe maturato e cresciuto nel corso di una vita dedicata al compimento della missione che il “maestro” gli aveva assegnato, e che lui sentiva così insita nella sua natura: mettere i propri talenti al servizio del Signore, farsi artista e pittore della cristianità.

Diversamente dalle sofisticate speculazioni intellettuali che caratterizzano la ricerca spirituale nell’ambito del neoplatonismo mediceo, le parole del Savonarola si rifanno a un sentimento vibrante, che si erge a strumento privilegiato di evoluzione spirituale.  La sua attenzione si rivolge alle urgenti necessità di chi viveva con inquietudine la crisi morale e culturale del tempo, e le sue aspirazioni si tradussero in una consapevole militanza politica, intesa come espressione del proprio servizio alla volontà divina. In lui sembra riemergere una concezione della società e della cultura che per molti aspetti rimanda a una sensibilità ancora medioevale, nel senso di un teocentrismo attorno al quale organizzare ogni elemento della vita umana. In questa concezione organica di una società in cui ogni ceto sociale esprime una diversa funzione, in vista di un comune beneficio di ordine trascendente, non è possibile pensare una frattura culturale come quella che si era andata creando nel rinascimento italiano, con la raffinatezza delle corti signorili da una parte e, dall’altra, una cultura popolare che continuava a riferirsi a modelli elaborati nei secoli, in vista di un diffusa educazione spirituale. Sullo sfondo di un’atmosfera d’inquietudine religiosa, fra Girolamo andava sovrapponendo alla cultura umanistica e neoplatonica i temi dell’antica tradizione patristica, della filosofia scolastica di stampo aristotelico-tomistico e della mistica medioevale, determinando così il tramonto stesso dell’umanesimo.

La stessa crisi si riflette nel linguaggio arcaico e innovativo del Buonarroti, la cui arte, accanto alle parole e alle opere del Savonarola, costituisce uno dei segni più significativi di una nuova concezione dell’uomo e del cosmo, in cui la dimensione sovrarazionale riappare nella sua centralità originaria, con il ritorno a una concezione mistica del Sapere e della Conoscenza che si ricollega alle più alte esperienze della tradizione medioevale.

Anche la concezione della bellezza, nel frate domenicano, si accorda con le idee medioevali, così come il suo punto di vista sulla funzione delle arti. Secondo il Savonarola la bellezza perfetta risiede in Dio, e le forme di tutte le cose create, che da Lui procedono, riflettono quella bellezza originaria. La bellezza mondana, ben lungi dall’essere la sorgente stessa del peccato, è strumento di evoluzione e ci permette di intuire e percepire quella divina e spirituale, che le è superiore.

Le sue definizioni sull’arte ribadiscono questo principio: il Savonarola, che in gioventù dimostrò uno spontaneo interesse per il disegno, ha sempre assegnato una grande importanza al ruolo che l’arte poteva rivestire nella sua attività di predica. Ben consapevole delle influenze nocive che potevano derivare da un’arte immorale, aveva allo stesso tempo la massima fede nel bene che poteva essere prodotto da un’opera onesta. Tuttavia il Savonarola non si limita a ingiungere che “si levassino via le figure inoneste” dalle chiese, ma dimostrando una sottile sensibilità estetica aggiunge che “non si dipingessi cose grosse che muovono al riso e che nelle chiese non dipingessi che buoni maestri”. Anche la qualità artistica, dunque, al fianco della scelta dei soggetti ricopriva per lui un ruolo di primaria importanza. Proprio perché “le figure delle chiese sono li libri” di coloro che non sanno leggere, delle donne e dei fanciulli “si vorria provvedere a esse anche meglio che li pagani”.

A queste parole sembra ispirarsi o corrispondere il Buonarroti, la cui opera può essere intesa come una continuazione dei propositi edificanti del Savonarola. La giustificazione stessa dell’arte era per Michelangelo quella di ispirare sentimenti devoti nello spettatore, e la familiarità con le Sacre Scritture era per lui essenziale a una grande arte. Ancora al tempo di Michelangelo chi contemplava gli affreschi della Cappella Sistina li considerava come orazioni dipinte, volte dunque alla purificazione e all’elevazione della mente a modelli ideali piuttosto che creazioni di pura bellezza, indipendenti da compiti didascalici. Eppure la bellezza e il talento svolgevano una funzione essenziale, in primo luogo perché un pittore che non fosse maestro della sua arte non avrebbe saputo infondere severità, nobiltà e belle espressioni alle sue figure. In secondo luogo perché un’opera priva di attrattiva non avrebbe potuto sollecitare il riguardante a godere spontaneamente del soggetto religioso. Solo “i più illustri pittori”, dunque, avrebbero dovuto essere chiamati a celebrare nelle chiese e negli altari la divina “benignità, mansuetudine e purezza”.

La certezza dell’onnipotenza di Dio portava Michelangelo a credere di essere, in quanto artista, un semplice collaboratore di Dio, che, dopo aver assimilato gli insegnamenti della rivelazione, assiste il Signore Supremo nel Suo sforzo per liberare le anime condizionate. Proprio in virtù di questa eccelsa opera umanitaria, quell’artista che sia al tempo stesso devoto sincero è molto caro al Signore, il Quale si offre di contribuire direttamente all’opera sua, guidandolo nell’ispirazione e nel gesto della mano. Perciò al pittore di soggetti religiosi “non basti esser pittore, sia pure grande e abilissimo, ma sia necessario menar vita pia e se possibile santa, perché l’intelletto possa venir ispirato dallo Spirito Santo”.

L’opera non è che l’espressione del suo autore e reca l’impronta del suo pensiero, così come nella bellezza del Creato è impressa la grandezza del Creatore. Questo è quanto aveva predicato il Savonarola, aggiungendo conseguentemente che gli uomini carnali e passionali sono nemici dell’arte e della bellezza. Lo stesso principio è testimoniato dal commento di Michelangelo sui dipinti di fra’ Angelico, quando afferma che “quest’uomo profondamente buono dipingeva col cuore in modo da rappresentare anche esteriormente, col pennello, l’interiore devozione e pietà, cosa che io in nessun modo potrei fare perché comprendo di non avere un cuore così ben dotato”.

Qual era dunque la natura del cuore di Michelangelo, e di quello del Savonarola?

La critica storica si è lungamente distesa sul tema della veemenza che ha contraddistinto il linguaggio e gli atti del Savonarola, nella sua opera di trasmissione del messaggio divino. E ugualmente non c’è chi non abbia messo in evidenza l’impeto creativo che ha plasmato le opere realizzate da Michelangelo.

Quest’audacia trova il suo fondamento nella fede, fondata su una diligente investigazione delle sue ragioni. È da questa che la coerenza e il rigore del frate domenicano traggono il loro sostentamento: la parola tuona dall’alto della sua realizzazione e dalla profonda convinzione di agire secondo la volontà di Dio. La fermezza della sua fede però si scontra con la corruzione dei costumi e con la mondanità del modello culturale umanistico-rinascimentale. Il primo e più rilevante ostacolo, che trascende ogni contingenza spazio-temporale, è lo stato di obnubilamento delle coscienze che, coperte dal peccato e dalla lussuria, sono cieche alla realtà e alla verità di Dio. Il Savonarola aspira a risvegliare le coscienze dal loro torpore, testimoniando una gioia, un amore e una pienezza che travalicano la natura effimera e insapore delle cose terrene. Quest’anelito alla persuasione lo sospinge a ricercare continuamente il linguaggio più efficace al conseguimento dei suoi fini e a utilizzare allo scopo le più innovative invenzioni, come quella della stampa a caratteri mobili, che gli permetteva di pubblicare sistematicamente e di diffondere nell’arco di pochi giorni le trascrizioni delle sue prediche e dei suoi sermoni. Inoltre la sua consapevolezza del valore delle immagini quale strumento pedagogico è testimoniato dalle numerose edizioni decorate da xilografie, e create secondo le indicazioni fornite dallo stesso frate ai pittori.

Il Buonarroti, che al fianco di Dante ebbe tra le sue letture favorite le opere del Savonarola, non poteva che rimanere colpito da una così appassionata e innovativa ricerca estetica, tutta volta alla trasmissione dei valori supremi. La celebrata “terribilità” delle opere di Michelangelo può facilmente essere interpretata come l’espressione del conflitto che opponeva l’artista alla mentalità corrotta e profana dell’epoca, capace di sopportare con indifferenza e talvolta anche con simpatia lo scandaloso papato di Alessandro VI. Da questa tensione interiore, il desiderio di risvegliare le coscienze e di suscitare in loro un interesse, attraverso dinamiche comunicative che vincessero la consuetudine e la spenta e mortifera abitudine, e che eccitassero l’anima che dorme.

Nel Savonarola questo spirito sottintendeva una visione teologica che si rifaceva alle dottrine personalistiche di Tommaso d’Aquino, secondo le quali l’essere vivente è individuo distinto dal Signore, seppur intimamente connesso a Lui in un eterno e insopprimibile legame, nei sentimenti dell’Amore spirituale. L’affermazione di quest’alterità dell’anima dal suo Creatore è il fondamento dell’attitudine di devoto servizio, che pervase la personalità e l’opera del frate domenicano e che si espresse al suo più alto livello nella drammatica esperienza della repubblica fiorentina, conclusasi nel maggio del 1498 con la condanna al rogo del frate ferrarese in Piazza della Signoria.

Secondo la sua concezione, l’amore non può essere ispirato nell’animo del devoto dalla sola dignità divina, ma risponde alla Sua somma bontà, che si spande su ogni cosa e su ogni creatura, in differenti gradi. L’attrazione dell’anima individuale verso Dio scaturisce non solo dalla gloria promessa ma, molto più sottilmente, dal modo con il quale Dio si offre agli scambi d’amore con le Sue creature. Secondo il Suo desiderio, Dio trae tutte le cose a sé e tutte le cose, nella loro similitudine, desiderano ricongiungersi a Dio, nella Sua bontà e perfezione. Il Signore ci invita con dolci parole che allettano il cuore, ci beneficia con le esperienze della nostra vita, ci chiama a Sé con la voce dei Suoi profeti, si rivela a noi attraverso le Scritture. Non c’è costrizione, perché gli scambi, nel sentimento dell’amore, sono fondati sulla deliberata volontà e sulla libera scelta. È compito dell’uomo sviluppare il supremo desiderio e perseguirlo, invocando la misericordia di Dio che sola ci permette di compiere questo viaggio ascensionale.

La sua dinamica della salvazione si riflette nelle sculture michelangiolesche dei Prigioni. Queste opere traducono in marmo la dinamica trascendente dell’invito mosso dal Creatore alla propria creatura, dell’attrazione che questa voce suscita nell’essere incarnato, della libertà ontologica dell’essere vivente che si volge con forza a quella sorgente di Vita.

Dio è amato e desiderato, e in questo amore grandemente si rallegra e si diletta la creatura. Un amore inusitato, che ama ciò che non conosce e che non vede, e nel quale non di meno crede; e in questo sentimento di separazione si consuma e si dissolve il cuore dell’innamorato. In questo senso è molto significativa l’attenzione di fra Girolamo per quell’opera che, nell’ambito dell’Antico Testamento, costituisce la più alta celebrazione del puro amore spirituale che unisce l’anima individuale a Dio, nel rasa dell’amore coniugale: il Cantico dei Cantici:

O figliole di Hierusalem, vi scongiuro, se troverete il mio diletto, che me lo annunciate, perch’io mi consumo per amor suo.

In Michelangelo, la massima espressione di questo libero, eterno e fluido scambio d’intimi sentimenti amorosi tra Dio e l’anima individuale si trova nelle meravigliose sculture che celebrano il tema della Pietà e del nobile sentimento di amore in separazione che unisce la madre divina al suo fattore. Qui è il rasa dell’amore materno che viene offerto alla contemplazione del pubblico, un sentimento che Michelangelo ha idealizzato nel corso di tutta la sua vita, avendo dovuto superare ed elaborare la perdita della madre, a soli sei anni. Nella celebrazione delle glorie di Maria, sia il Savonarola che Michelangelo si rifanno alla lode dantesca, e la giovinezza della Madonna di San Pietro, “figlia del suo figlio”, trascende ogni verosimiglianza storica per raggiungere le vette di una realtà suprema ed eterna, per esprimere l’eccellenza dell’esperienza d’amore e della divina relazione.

 

Figura 20. Michelangelo, Pietà, 1497-1499, Basilica di San Pietro in Vaticano, Roma.

 

La natura di quest’amore è trascendente e non ha nulla a che vedere con la realtà della dimensione naturale. È l’esperienza di chi, abbandonate le cose visibili, persegua con tutto il suo cuore le invisibili. In questa esperienza agiscono i sensi spirituali che appercepiscono il divino, ed è questa esperienza che i mistici e i profeti testimoniano con le loro parole e con le loro opere. Ecco che anche Michelangelo testimonia: in conseguenza della sua esperienza, della sua concreta realizzazione e visione della realtà trascendente. L’arte trasmette ai sensi, attraverso i sensi, un’esperienza che trascende i sensi propriamente detti, o che li riscopre come strumenti purificati atti a percepire il divino, proprio perché impegnati a servirlo. Dalla pienezza di questa esperienza, Michelangelo trae tutta la forza del suo linguaggio, e tutta la carica missionaria ed evangelizzante che immette nella sua arte.

 

Dimmi di grazia, Amor, se gli occhi mei

Veggono 'l ver della Beltà c'aspiro,

O s'io l'ho dentro allor che, dov'io miro,

Veggio scolpito el viso di Costei.

[…]

“La beltà che tu vedi è ben da quella,

Ma cresce poi c'a miglior loco sale,

Se per gli occhi mortali all'alma corre.

Quivi si fa divina, onesta e bella,

Com'asimil vuol cosa immortale:

Questa e non quella agli occhi tuo precorre”.

Negli ultimi quindici o venti anni di vita si nota un ulteriore cambiamento nell’arte e nel pensiero di Michelangelo. “Gli scritti del Savonarola, al quale egli ha sempre avuto grande soddisfazione, restandogli ancor nella mente la memoria della sua viva voce”, continuavano a ispirarlo e a maturare in lui. Gli ultimi sonetti, le pitture tarde e le ultime sculture rivelano una svolta coscienziale, per cui le opere precedenti sembrano essere da lui considerate non più come mezzi per servire Dio, ma come distrazioni alla pratica del più alto dovere e al conseguimento della suprema meta. È difficile decidere se il maestro sia meglio riuscito a esprimere nei versi o nelle sculture degli ultimi anni il suo intenso sentimento religioso, se pensiamo alla commovente relazione che, fino a pochi giorni prima della sua morte, intrattenne con i marmi della sua ultima Pietà, nel drammatico tentativo di ricondurre la forma tangibile al suo archetipo divino, quasi a esemplificare il verso dantesco: “Trasumanar significar per verba non si potria”.

 

Figura 21. Daniele da Volterra, Ritratto di Michelangelo, 1544ca., Metropolitan Museum of Art, New York.

I tratti di una personalità ascetica e riservata si accentuano nella sua vecchiaia, così come l’aspirazione all’abbandono delle cose e degli affetti mondani, e l’intimo desiderio di concentrare tutti i suoi pensieri in Dio. A Lui si rivolge personalmente, in modi che ricordano la “dolce chiamata” di savonaroliana memoria e le citazioni del frate dal Cantico dei Cantici: “Tira me dietro Te; corriamo!/Conducimi, o Re, nei Tuoi penetrali”.

Tra gli affetti di Michelangelo, il maggiore era sicuramente quello per la sua arte e per quella fantasia che la ispirava. È così che l’artista e poeta scrive:

Onde all’affettuosa fantasia

Che l’arte mi fece idol’ e monarca

Conosco or ben, com’era d’error carca

E quel ch’a mal suo grado ogn’uom desia.

[…]

pinger né scolpir fie più che quieti

L’anima, volta a quell’amor divino,

Ch’aperse, a prender noi, ‘n croce la braccia.

Il percorso di Michelangelo l’ha condotto a sublimare progressivamente il suo desiderio, che dalle forme rifinite delle opere giovanili, attraverso il non-finito della sua maturità artistica, si esprime infine nella smaterializzazione del suo agire, in un costante anelito a rendersi “un che Gli piaccia”.

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