Skip to main content

LA FORMA DELLO SPIRITO - L’in-finitezza della Pietà Rondanini tra la vita e la morte di Michelangelo | Prima parte


Pietà Vaticana, 1497-1499, Roma, Basilica di San Pietro in Vaticano

La morte di Michelangelo è stata tanto straordinaria e significativa quanto la sua vita.
Di salute malferma, di fisico gracile e piccolo di statura, quest’uomo è stato uno dei giganti del Rinascimento e si può affermare con certezza che il Rinascimento non sarebbe stato lo stesso e non avrebbe prodotto gli stessi effetti senza la presenza di Michelangelo.
Fiorentino, straordinario innovatore del linguaggio e indomito paladino delle più alte aspirazioni dello spirito, quest’uomo fu concittadino e degno erede del portato valoriale di Dante. Di lui fu appassionato lettore e ammiratore e con lui condivise, tra gli altri, il vivido anelito alla libertà; non astrattamente concettualizzata, ma coerentemente vissuta nelle scelte e nel desiderio di essere presente nel dispiegarsi delle dinamiche della storia.
Nel 1530 Michelangelo, già cinquantenne, rischia la vita nella difesa della Firenze repubblicana che pochi anni prima si costituisce in opposizione a una Signoria medicea, percepita oramai come soffocante e non idonea per lo sviluppo della personalità. È lui che disegna gli apparati e le difese militari per la città sotto assedio e, al prevalere delle forze imperiali, fu solo la sua conclamata grandezza a salvarlo da una morte a cui in molti lo volevano condannare, a partire dal futuro Duca di Firenze, Alessandro de’ Medici.
Già in altre occasioni Michelangelo aveva conosciuto l’arroganza del potere. Era a Roma, impegnato nella prestigiosa commissione della Pietà Vaticana, quando, nel 1498, una delle più inquietanti figure che mai ascesero al soglio pontificio, quella di papa Alessandro VI Borgia, stanco delle aspre critiche rivoltegli da Girolamo Savonarola, per la corruzione dei suoi costumi, fece sì che il frate domenicano fosse dichiarato eretico e scismatico, e condannato all’impiccagione e al rogo. È carica di significato la constatazione che fin da quella sua opera giovanile Michelangelo s’impegni a promuovere, nel degrado morale della Chiesa di allora, quegli ideali di purezza che ispireranno la sua vita e la sua arte, e che costituiranno la più significativa eredità che il Savonarola seppe instillare con le sue parole nel cuore dell’artista.
Difficile fu la sua relazione con il burrascoso Giulio II della Rovere, che dal 1505 lo impegnò al suo servizio, senza risparmiagli minacce e in certe occasioni perfino percosse. E grave fu la sua situazione sotto il terribile papato di Paolo IV Carafa (1555-1559), che dedicò gran parte della sua carriera ecclesiastica alla riorganizzazione e allo sviluppo della neonata Inquisizione Romana. In quegli anni della metà del secolo Michelangelo, sospinto dalla sua irrefrenabile tensione verso un’autentica ricerca spirituale e dalla sublime amicizia con la poetessa Vittoria Colonna, prende parte a un importante movimento religioso conosciuto come gli “Spirituali” che, pur mantenendo una posizione interna alla Chiesa Vaticana, sosteneva tesi di riforma e moralizzazione, e che si costituirà come una “terza via” rispetto all’ortodossia conservatrice e alla riforma luterana. Molti fra i leader del circolo degli “Spirituali”, tra cui anche la nobile Colonna, dovettero subire la pesante pressione del tribunale dell’Inquisizione e solo la grandezza e la fama dell’artista lo preservarono da questo pauroso pericolo.
Questa aspirazione alla libertà -che così intrinsecamente si combina con la creatività- la riscontriamo fin dalla giovinezza di Michelangelo trascorsa, a partire dal 1490, negli splendori della corte di Lorenzo il Magnifico. Splendori soprattutto culturali, con la presenza di figure del calibro di Marsilio Ficino, del Poliziano o di Pico della Mirandola, che accolgono e formano alla più sofisticata speculazione neoplatonica un Michelangelo appena quindicenne.
Ma lo sfarzo e il privilegio della sua condizione non hanno mai corrotto l’integrità d’intenti del giovanissimo artista il quale, in una città paradossalmente scissa tra violenza e corruzione politica da una parte e aspirazioni alla più alta cultura e sublime bellezza dall’altra, divenne in quegli stessi anni, fervente ammiratore e seguace del Savonarola. Il frate domenicano nelle sue infuocate prediche vespertine che scuotevano le coscienze dei fiorentini, condannava senza remore quel potere che aveva nel Magnifico Lorenzo il suo rappresentante più emblematico.
La terribile condanna al rogo di quello che a ragione può essere considerato il suo maestro spirituale, fu per lui un trauma insuperato che lo accompagnerà nelle riflessioni di tutta una vita.
Michelangelo amava i suoi accorati appelli alla purezza e alla castità e tollerava le sue implacabili condanne dello sfarzo della corte medicea. Egli infatti, seppure autore di opere grandiose, è sempre stato amministratore accorto e sobrio delle pur ingenti ricchezze che la sua fama e il suo merito gli procurarono; ha sempre dimostrato rispetto nei confronti della ricchezza, ma mai sudditanza: né nell’avidità, né tantomeno nella dissipazione.
Per tutta la vita Michelangelo dovette subire le insistenti richieste di denaro da parte di familiari i quali, a cominciare dal padre notaio fino a suo nipote Lionardo, che lo accudiva nei suoi ultimi giorni, furono sempre più “avidi di denaro che d’affetto”. Divenuto uno degli uomini più facoltosi di Roma, egli seppe rispondere con misura e distacco a queste incombenze, acquistando innumerevoli proprietà immobiliari per elevare lo status sociale dei suoi parenti, ma continuando a vivere come un artigiano qualunque, senza concedersi inutili comodità e non mostrando alcun interesse per il lusso esteriore. Una frugalità esemplare che risulta ancora più nobile se confrontata con il prestigio di cui godeva il divino Michelangelo, in un’epoca in cui l’arte era posta al vertice della vita umana.
Alla corte dei Medici il genio di Michelangelo si nutrì di quella bellezza che era per lui alimento essenziale. Non una bellezza sensuale ma ideale e casta, seppure su di lui la materia continuasse esercitare un fascino straordinario. Secondo i princìpi del neoplatonismo, la natura divina si mostrava anche attraverso le forme percepibili della bellezza terrena; e questa bellezza, correttamente intesa, diventava strumento per l’ascesa alla dimensione originaria dello spirito.
Michelangelo dunque non contemplava una rigida spaccatura tra materia e spirito, né tra bellezza e bontà, tra estetica ed etica, tra forma e contenuto; seppure questa sua impostazione lo abbia esposto a numerose e volgari calunnie che, a partire dalla celeberrima di Pietro Aretino, suo contemporaneo, si sono protratte nel corso della storia, fino ai nostri giorni. Secondo questa distorta interpretazione, il suo interesse per il nudo è il sintomo di uno spirito sensuale e i suoi profondi e nobili sentimenti verso le persone a lui più intimamente care sono il segno di una passione carnale.
In questo senso la figura di Tommaso de’ Cavalieri occupa una posizione speciale nella vita dell’artista che, avendolo incontrato a Roma nel 1532, rimase scosso dalla combinata armonia di nobiltà d’animo e d’aspetto. Michelangelo amò il gentiluomo romano di quell’amore ardente proprio della sua natura ma -come nell’amicizia con la poetessa Vittoria Colonna- sempre volto a una risonanza ideale e a una profonda condivisione di tematiche spirituali. Le sue lettere e i suoi sonetti tracimano di questo ardore, che è però frutto di devozione e non di passione ordinaria.
Michelangelo non credeva in una bellezza corporea fine a se stessa e cercava nelle sue opere di celebrare la perfezione, l’eccellenza e l’estasi di una forma, sostenuta dalla potenza della realtà trascendente, senza la quale ogni estetismo corrisponde a corruzione. Nelle membra perfette e poderose dei suoi giganti, Michelangelo voleva dar risalto alla perfezione del Creato. Non era un filosofo astratto o un devoto bigotto e il nudo era per lui strumento privilegiato per indagare quell’inconcepibile differenza e non differenza che intercorre tra spirito e materia.

  • Ultimo aggiornamento il .

INFORMAZIONI DI CONTATTO

  • (+39) 0587 733730

  • (+39) 0587 739898

  • (+39) 320 3264838

  • Via Manzoni 9A, Ponsacco (PI)
Copyright © Centro Studi Bhaktivedanta, tutti i diritti sono riservati. P.IVA 01636650507 C.F. 90021780508