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Sublimazione dell’energia sessuale e riscoperta di sé – La pratica del brahmacarya

Brahman è ‘conoscenza vedica’, ‘continenza sessuale’, ‘Spirito onnipervadente’. Carya è ‘condotta’, ‘comportamento’, ‘pratica’. Per cui brahmacarya è ‘pratica di vita volta alla realizzazione della nostra essenza spirituale attraverso lo studio delle scritture sacre e la gestione evolutiva dell’energia sessuale’. Vediamo adesso di sciogliere la densità di questa definizione lasciando spazio a una riflessione che risponda ad alcune delle resistenze che la mente umana condizionata potrebbe essere pronta ad opporre a una serena assimilazione di un principio e di un comportamento tanto salutare quanto, oggigiorno, ostracizzato.

Tale rifiuto corrisponde all’integrale mondanizzazione della vita umana, programmaticamente perpetrata dall’attuale élite socio-economico-culturale, che è figlia di un’antica quanto malsana concezione nichilista e riduzionista. Il nucleo di tale visione è esposto con precisione e compiutezza straordinarie in un’opera datata, secondo la tradizione di riferimento, al 3139 a.C.1 Stiamo parlando della Bhagavad-gītā che, nell’ottavo verso del sedicesimo capitolo dichiara:
Persone ottenebrate affermano che il mondo non è fondato su alcuna verità o principio etico; che non è frutto del volere di Dio ma originato dall’unione sessuale, essendo sua unica causa la lussuria e la brama individuale.

Secondo tale prospettiva, quale spazio potrà mai essere riservato a una pratica che si fonda sulla continenza e sulla sublimazione del principio del piacere, per il conseguimento di uno scopo superiore e di natura spiritale? Ogni affermazione in tal senso non potrà che risultare fanatica e autolesionista, negatrice del naturale diritto alla gioia.

Al fine di restituire vigore e dignità socio-culturale a un modello comportamentale che nei millenni è stato considerato del più alto valore etico e morale, proviamo ad offrire considerazioni scientifiche e razionali che rispondano alle necessità cognitive della donna e dell’uomo contemporanei.

Nella scienza della salute (ayur-veda) che sorge in seno alla tradizione indovedica, il termine sanscrito śukra indica il tessuto organico sia maschile che femminile deputato alla riproduzione della specie. È il più raffinato tra tutti i tessuti e in esso si concentra la maggiore carica energetica, tratta dalla distillazione di tutti i tessuti sottostanti. Letteralmente śukra significa ‘splendore’, ‘luminosità’, ‘ardore’. Termini che ben riflettono il vitale valore energetico di cui è carico. Tale preziosa sostanza è dunque il più potente carburante a disposizione delle macchine corporee, umane e non. È l’elemento attraverso il quale si attiva il processo procreativo biologico, e sublimando il quale si accede alla sfera coscienziale della creatività artistica, imprenditoriale, ecc. Ed è interessante notare che tale eccellenza fisiologica sia intrinsecamente volta a dinamiche che trascendono il piano della mera egoicità.

Nel suo trattato sullo Yoga, Patañjali muni annovera il brahmacarya tra quei comportamenti fondamentali che un ricercatore spirituale deve mantenere nel suo relazionarsi con il mondo circostante.2 La potenza psichica che la sublimazione dell’impulso sessuale permette di sviluppare è, infatti, indispensabile per affrontare e superare i titanici ostacoli che si frappongono tra il praticante e l’ambita meta della liberazione dai condizionamenti e della riscoperta di se stessi. Si tratta indubbiamente del più significativo e complesso processo di trasformazione e conformazione della materia a cui l’essere umano abbia accesso, attraverso il quale la persona interviene creativamente e progettualmente sul materiale sottile dei propri concetti, emozioni, sentimenti e desideri, per trarne forme sempre più perfette che consentano un riflettersi in esse della luce spirituale che da vita ad ogni essere.

La forza psichica che deriva dalla pratica del brahmacarya agisce anche nel mondo esteriore, consentendo di sviluppare carisma e capacità di influenzamento attraverso azioni, parole e pensieri che beneficiano della carica energetica che li sottende. Questo consente di compiere imprese straordinarie, altrimenti precluse all’essere umano; e consente altresì di coltivare relazioni profonde e durature, fondate sull’affidabilità e sulla stabilità emozionale. D’altro canto, la dispersione di energia sessuale comporta un indebolimento psichico, oltre che fisico, e il corrispondente dilagare di difetti caratteriali quali l’indolenza, la neghittosità, la superficialità. È una scelta alla portata di ciascuno quella di investire le proprie risorse in senso evolutivo e costruttivo piuttosto che nel perseguire piaceri effimeri e degradanti.

Sublimare non significa reprimere. Quest’ultimo atteggiamento, al pari della dispersione selvaggia, produce notevoli disturbi della personalità, in quanto nega l’esistenza di un’energia poderosa che deve essere gestita. Come sempre, la volontà va applicata con saggezza e benevolenza, e solo una nobile motivazione permette quest’impiego oculato e virtuoso. Prima ancora di dedicarci alla pratica della continenza, dovremmo aver ben chiara la finalità nella quale investire il frutto del nostro sforzo; e il processo sarà coronato dal successo solo se l’intento è di favorire lo sviluppo della nostra e altrui consapevolezza. Solo quelle risorse investite con compassione per tutti gli esseri viventi possono essere considerate autentica ricchezza; altrimenti sono causa di condizionamento e conseguente sofferenza.

Ancora Patañjali ci mette in guardia da una pratica dello Yoga che sia volta non al ricongiungersi dell’io empirico (ahaṁkāra) all’io superiore (ātman), dell’anima individuale all’Anima suprema (o Dio), ma al mero sviluppo di capacità psicofisiche superiori che permettono al praticante di compiere azioni sbalorditive e sovraumane.1 Il principio egoico e luciferino del ‘superuomo’ (l’übermensch di nietzschiana memoria) si insinua così in una disciplina, quella dello Yoga, il cui scopo autentico e originario è di trascendere tutti i condizionamenti egoici. Questo a dimostrazione di quanto sia ancestralmente radicata nell’essere umano quella prospettiva così magistralmente sintetizzata dal verso della Bhagavad-gītā succitato. Si tratta, ancora una volta, dell’emersione della ‘volontà di potenza’: quel principio tenebroso che tende a ridurre l’essere vivente a mera corporeità, negando ogni valore etico e divina potenzialità.

Oggi questa pericolosissima attitudine è promossa con grandi mezzi dal movimento scientista e radicalmente nichilista del ‘transumanesimo’, il cui scopo è di plasmare con innesti nanotecnologici e con l’uso dell’intelligenza artificiale un ‘uomo bionico’ che possa violare i limiti imposti dalla Natura. Non si tratta, infine, di un trascendimento della condizione umana quanto piuttosto di un sempre più profondo immergersi in un materialismo avido e predatorio che non mancherà di produrre le inevitabili, dolorose conseguenze attivate dalle inesorabili leggi della Natura.

Non bisogna quindi sacrificare l’energia sessuale allo scopo di sviluppare un potere di autoaffermazione, perché ciò significa agire in contrapposizione a Dio e a danno di tutte le creature e del Creato.4 Il brahmacarya è finalizzato alla trasformazione dell’eros in un sentimento amoroso che ci unisca eternamente a Dio e a tutti gli esseri viventi. È una scelta di libertà, attraverso la quale prendiamo le distanze dai nostri impulsi animaleschi per dirigere consapevolmente la nostra esistenza umana verso un successo autentico e duraturo caratterizzato da Felicità e Amore. Come Dante ci insegna: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.5

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1 Secondo la cronologia tradizionale indovedica, la guerra di Kurukṣera, nel cui contesto viene declamata la Bhagavad-gītā, ha luogo a cavallo tra il 3139 e il 3138 a.C.
2 Yoga-sūtra, Sādhana Pāda, sūtra 30 e 38.
3 Yoga-sūtra, Vibhūti Pāda, sūtra 38.
4 Cfr. Bhagavad-gītā 16.9: “Basandosi su questa visione, persone malvage, dalla mentalità perversa e dall’intelligenza limitata, compiono atti scellerati che conducono alla distruzione del mondo intero.”
5 Divina Commedia, Inferno, XXVI.118-120.

 

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