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La meditazione e gli ostacoli sul cammino

Scritto da Marco Ferrini

«È troppo difficile, meditare non fa per me». Accade purtroppo a molti. Partono con entusiasmo, spinti dal desiderio sincero di entrare in contatto con la parte di sé più autentica, ma gli ostacoli che incontrano li allontanano in men che non si dica dalla salutare pratica della meditazione.

Capita anche al discepolo perfetto, Arjuna, un guerriero, e dunque avvezzo alla disciplina. “Lo yoga che mi hai descritto, o Madhusudana, mi sembra impraticabile, perché la mente è instabile e irrequieta” dice al suo maestro spirituale shri Krishna sul campo di battaglia di Kurukshetra, metafora di quel campo di battaglia che è la vita. E subito dopo aggiunge: “La mente, o Krishna, è irrequieta, impetuosa, potente e ostinata; dominarla mi sembra più difficile che controllare il vento”
(Bhagavad Gita IV, 33-34).

E infatti l’errore comune, quando ci si avvicina alla pratica meditativa, è pensare che basti sedersi con le gambe incrociate, chiudere gli occhi, concentrarsi sul respiro o su altri oggetti (bija) perché accada dhyana, la meditazione. Niente di più falso.

Dhyana è invece soltanto l’esito di un percorso, non l’inizio, anche se ciò non deve scoraggiare il principiante dal tentare di praticarla fin da subito. Anzi. Proprio sperimentando gli ostacoli e facendovi fronte con metodo potrà nel tempo ottenere il risultato a cui aspira.

Mettere in ordine il panorama interiore è un prerequisito fondamentale per il successo nella meditazione. Fintanto che si è vittime di sbalzi di umore, conflitti intrapsichici e relazionali, pensieri disturbanti, emozioni disordinate si crede di meditare, in realtà si sta facendo tutt’altro.

Il nirodhah, ovvero il controllo delle vritti, le onde-pensiero della mente, è il varco per poter entrare nella meditazione e si apre solo grazie ad un umile e costante lavoro preparatorio.

Non a caso Patanjali, nei suoi Yoga Sutra, colloca dhyana al settimo scalino, uno prima del samadhi. Il primo e il secondo gradino sono costituiti da yama e niyama: l’elenco delle cose da fare e di quelle da non fare.

Chi vuole diventare un meditatore di successo, dunque, deve prima di tutto astenersi da certi comportamenti e attivarsi con sollecitudine per adottarne altri. Senza una pratica di vita impostata su yama e niyama* la meditazione non può accadere. È infatti il giusto comportamento che porta al praticante quell’equilibrio interiore e quella pace mentale indispensabili per una meditazione di successo.
Lo abbiamo sperimentato tutti: quando ci comportiamo in modo etico, il primo dono che conseguiamo è shanti, la pace della mente e del cuore. Che è l’esito di una pratica meditativa di successo ma anche il principio. Così come ishvarapranidana, l’affidarsi a Dio (o se si preferisce in chiave laica ad un canone etico) è il presupposto della pratica meditativa ma anche uno dei conseguimenti più alti.

Quando invece compiamo degli errori, più o meno consapevolmente, il primo danno è la perdita della serenità dovuta a rimorsi, sensi di colpa, pensieri ossessivi, emozioni disfunzionali, ansia, depressione.

La teoria è facile da esporsi e anche da comprendere a livello intellettuale. La pratica effettiva lo è molto di meno perché, per quanto non ci piaccia sentircelo dire o constatarlo di persona, siamo molto più condizionati di quanto vogliamo o possiamo credere.

Le nostre dipendenze più vistose ci sono note e famigliari, ma le più subdole e sottili ci sono sconosciute e, dalle profondità della mente inconscia o subconscia, continuano ad agitare le acque chiare della coscienza, impedendo il contatto con il Sé.

Per chi è determinato e persegue un metodo validato e autentico, tuttavia, il successo è garantito. Servono entusiasmo e pazienza.
Patanjali infatti ci assicura che “per coloro la cui pratica è vigorosa e intensa, [il samadhi è] vicino”
(Yoga Sutra 1, XXI).
Anche Krishna nella Bhagavad Gita risponde alle preoccupazioni di Arjuna con parole incoraggianti: “[…] è indubbiamente difficile domare la mente inquieta, ma è possibile con il distacco e una pratica adeguata” (VI, 35).
Se poi questo viaggio straordinario di conoscenza di sé e di scoperta dell’Amore, che è la nostra natura più profonda, lo facciamo con la guida di un insegnante qualificato insieme ad altri ricercatori spirituali, condividendo le esperienze di successo e di insuccesso, la meta si avvicinerà ancora più rapidamente.
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*Yama e Niyama
Yama si possono definire i comportamenti da tenere verso gli altri: non-violenza (ahimsa), veridicità (satya), non rubare (asteya), continenza (bramhacharya), non possessività (aparigrah).
Niyama sono le regole verso sé stessi: pulizia (saucha), contentezza (santosha), ascesi (tapah), studio di sé (swadhyaya), abbandono a Dio (ishvarapranidana).


ARTICOLO DI MARCO FERRINI PUBBLICATO SULLA RIVISTA VIVERE LO YOGA n° 91,  FEBBRAIO/MARZO 2020

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