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Ahiṁsā - Dalla non-violenza alla pratica dell’Amore

 

 

“Tutto è uno!” È un’affermazione suggestiva ma insufficiente. Bisogna poi vivere coerentemente rispetto a questo principio. Quest’unico pianeta dobbiamo condividerlo con quasi 8.000.000.000 di umani e con un numero difficilmente quantificabile di altre creature. Se non troviamo buone regole di convivenza, molti ne risentiranno e, poiché “tutto è uno”, tutti soffriranno delle sofferenze altrui.

La scienza dello Yoga ci viene in soccorso, offrendoci -quali suoi pilastri e fondamenta per una vita sociale e individuale che ha il sapore dell’universalità- 10 norme di comportamento che consentono di armonizzare perfettamente le esigenze di tutti e di ciascuno, nel rispetto del pianeta che ci ospita. Sono norme che rispecchiano la realtà esistente, e non principi astrattamente ideologici imposti dall’uomo sull’uomo. Sono norme che esistono a prescindere dall’uomo, e che all’uomo vengono offerte per gestire la propria esistenza nel modo più proficuo dal punto di vista evolutivo.

Yama: le 5 astensioni; niyama: le 5 prescrizioni. In una serie di brevi articoli, cercheremo di presentarli ad uno ad uno, traendo spunto dagli insegnamenti che Marco Ferrini ci ha offerto nel corso del suo recente seminario, intitolato: “Le 10 regole d’oro”.

1. Ahiṁsā (non-violenza)

Viviamo in un’epoca di grande crisi: sociale, politica, economica, sanitaria. Siamo sottoposti a trattamenti durissimi e a violazioni dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione. Siamo bombardati da continue, sistematiche menzogne e falsificazioni, volte a ingenerare paura e angoscia. Stiamo subendo un durissimo attacco, e ci chiediamo quale sia il modo più giusto per rispondere. Infatti, non è tanto quel che ci accade a determinare la qualità della nostra vita, ma la risposta che sappiamo dare agli eventi. Se desideriamo perseguire il cammino della gioia, nostra e altrui, dobbiamo rispondere alle provocazioni mantenendoci nello spirito più costruttivo, come fautori di soluzioni e non di ulteriori problemi.

Il primo passo da compiere è quello della compassione (karuṇā) per coloro che speculano sulla nostra pelle. Questi malfattori sono le prime vittime delle loro angherie e, per la legge dell’indefettibile remunerazione delle azioni (legge del karma), riceveranno in cambio delle sofferenze inflitte un carico moltiplicato esponenzialmente. Ciò sia per noi motivo di tristezza e non di giubilo.

Compassione non significa rimanere passivi e subire la violenza altrui. Si deve piuttosto rispondere mantenendoci su un piano superiore rispetto a quello dell’interlocutore: quello della benevolenza, della persuasione. Nella misura in cui ci è possibile cercheremo di sottrarci all’aggressione; altrimenti potremo ricorrere alla legittima difesa, facendo però molta attenzione a non travalicare il limite sottile che la separa dall’offesa vera e propria.

Se vogliamo essere felici, dobbiamo far trionfare l’anima, imparare a parlare con il cuore, rinunciare alla conflittualità, alla reattività, alla provocazione. Nella mitologia indo-vedica, il conflitto personificato (Kali) è detto essere figlio della violenza (Hiṁsā) e della collera (Krodha). Se, difronte alle aggressioni subite, sapremo rinunciare alla nostra collera, non potrà generarsi il conflitto. Solo così potremo contribuire costruttivamente alla soluzione: avanzando proposte piuttosto che proteste.

La non-violenza, dunque, è sostenuta dalla tolleranza (titikṣā); e questa, a sua volta, si fonda sulla comprensione che tutto ciò che ci accade è limitato nel tempo. Allora anche le circostanze più difficili si trasformano in nient’altro che una straordinaria opportunità di evoluzione, rispondendo ad esse nel modo più luminoso. Affinché ciò sia possibile, bisogna essersi fatti un’idea chiara di ciò che è bene e ciò che è male, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non per scagliarsi contro chi sbaglia, ma per offrire un differente punto di vista, nella speranza che possa essere accolto. Dunque,ahiṁsā non è un concetto meramente teorico, ma una pratica impegnativa volta al superamento dei nostri limiti caratteriali.

A-hiṁsānon sia solo astenersi dall’agire, dal parlare, pensare, desiderare in modo distruttivo nei confronti del Creato, degli altri o di noi stessi. Sia, al contempo, pratica attiva di benevolenza. Infatti, la mente umana non è in grado di sostenersi su un principio meramente negativo, ma ha bisogno di riequilibrarsi e integrarsi con corrispondente positivo. Allora l’efficacia della pratica sarà moltiplicata. Nel senso più compiuto, ahiṁsā significa fare in modo che l’altro tragga il massimo beneficio possibile dalla nostra azione.

In questo modo possiamo costruire la nostra rivoluzione, fatta di conquiste non effimere ma durature, in quanto fondate nell’eternità; infallibile, perché non dipendente da dinamiche che sfuggono al nostro controllo, ma dalla gestione della nostra interiorità. Questa rivoluzione non violenta, pacifica, amorevole, avviene con il risveglio della coscienza, ed è questo risveglio che dobbiamo suscitare. A cominciare da noi, perché non possiamo farci portatori di una luce che non brilla dentro. Questa è l’unica rivoluzione possibile, perché prende in considerazione e integra le due dimensioni dell’essere umano, quella di terra e quella di cielo; ed essendo fondata sulla realtà, possiede la forza di espandersi illimitatamente, accendendosi nel cuore di tutti. Ma perché ciò possa accadere, c’è bisogno di esempi ideali, espressioni concrete della più alta coerenza. La nostra sola battaglia sia, quindi, quella contro i condizionamenti viziosi che tiranneggiano la coscienza.

Dobbiamo farci Amore: questa è la meta. E la possiamo raggiungere anche in un periodo così difficile. Dobbiamo imparare a riconoscere negli altri questa stessa luce e moltiplicarla condividendo con loro la nostra luce. Perché l’Amore o è relazione, o non è affatto.

Amore è tollerare le malvagità altrui, ma non farsene complici con un colpevole silenzio. Questo non testimonierebbe la nostra benevolenza, perché sappiamo quanto la persona dovrà soffrire in conseguenza dei suoi atti scellerati. Possiamo esprimere la nostra compassione dissentendo, e aiutando a innalzare il punto di vista oltre gli angusti limiti dell’ego, lasciando all’interlocutore la libertà di scegliere se accogliere o meno il nostro contributo.

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