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Aparigraha - Libertà dalla propensione a impadronirsi della volontà altrui

a è alfa privativa, il nostro ‘non’; pari è il ‘peri’ di ‘peri-metro’, ‘peri-feria’ e indica ‘tutto intorno’; graha (da cui anche l’italiano ‘grinfie’, ‘sgraffignare’) è ‘il prendere’, ‘l’afferrare’, ‘l’impossessarsi’. Aparigraha, l’ultima delle astensioni raccomandate da Patañjali Muni nel suo celeberrimo trattato sullo Yoga, è dunque l’astenersi dal circuire, dal raggirare qualcuno, privandolo così della propria capacità di discernimento e di libera scelta consapevole. Nel codice penale della Repubblica Italiana esiste il reato di circonvenzione di incapace, che sembra voler rispondere sul piano legislativo a questo principio di giustizia eterno e universale.[1]

La propensione a impossessarsi della volontà altrui è un fenomeno psicologico molto sottile, analizzabile da molteplici punti di vista. Si tratta di una dinamica estremamente diffusa ma, forse proprio per questo, raramente riconosciuta. La spinta a quest’atto subdolo e distruttivo risiede nel desiderio patologico di possesso e di dominio, che può essere senza dubbio annoverato come componente della famigerata ‘volontà di potenza’ nietzschiana.

Non dovremmo pensare che questo principio riguardi solo le alte sfere del pensiero intellettuale. Al contrario, pervade le nostre vite di tutti i giorni. Parigraha, la smania di possesso, spesso contamina le relazioni umane definite ‘affettive’, nelle quali può insinuarsi una tendenza a gestire illecitamente la libertà altrui, condizionandone, seppur sottilmente, il volere. Chi smarrisce la disponibilità di se stesso, perde la capacità di esprimere le proprie potenzialità e talenti. Si tratta, dunque, di un fenomeno di enorme rilievo, in quanto molto frequente e molto potente.

La schiavitù era un tempo molto visibile, riconosciuta e legislata. Nella civiltà dell’antica Grecia, solo per fare un esempio, era considerato accettabile che un essere umano fosse spossessato della sua libertà e che questa fosse posta nella disponibilità di altri.

Sarebbe bene chiedersi: questa realtà un tempo istituzionalizzata, è oggi scomparsa? O è piuttosto vero che la stragrande maggioranza della popolazione è stata di fatto deprivata di una propria autentica capacità di discernimento e libera scelta, attraverso una comunicazione mediatica ossessiva e deviante? E ancora, la manipolazione mentale a cui siamo continuamente sottoposti non priva, forse, un oceanico numero di persone, non fornite di sufficienti mezzi psicologici e consapevolezza spirituale, della loro volontà e libertà?

Nei secoli scorsi, autori come Gustave Le Bon o Edward Bernays hanno sistematicamente studiato e applicato i principi della ‘manipolazione di massa’, fornendo alla politica reale strumenti di inaudita efficacia per la ‘fabbricazione del consenso’. I totalitarismi del novecento hanno fondato il loro potere su queste tecniche di comunicazione degenerata e oggigiorno i mezzi a disposizione sono incomparabilmente più incisivi e pervadenti. Seguire acriticamente la maggioranza significa, dunque, rinunciare alla propria autenticità e omologarsi a un falso modello imposto dall’esterno.

Oggi la libertà non viene ‘tolta’, ma ‘sfilata’, sottratta nell’inconsapevolezza di chi la perde.  Attraverso l’onnipresente propaganda, false strutture di pensiero si innestano nei circuiti psichici delle persone, sospingendole, eterodirette, nella direzione voluta da altri. Aparigraha è la risposta allo stato schiavile della nostra contemporaneità.

Riflettiamo sulla posizione del manipolatore. Cosa accade a chi priva altri della loro volontà? Per mantenere una persona incarcerata è imprescindibile un carceriere. Per cui, chi attenta alla libertà altrui, perde la propria. Sostenere la frode comporta uno sforzo continuo e logorante per mantenere in piedi un castello di menzogne che per natura è portato a crollare, in quanto la Verità è un altro fondamento di questo universo. Quale che sia la posizione sociale del mistificatore, quest’ultimo è necessariamente condannato a un’atroce sofferenza che, se non è pronto a farsi carico delle proprie responsabilità e ad abbandonare atteggiamenti distruttivi, lo condurrà a sviluppare diverse nevrosi. Quel che inizialmente si struttura come un’errata comprensione, come un’infondata fantasia apparentemente allettante, si trasforma progressivamente in un’orribile trappola, mano a mano che la persona persegue il folle sogno ignorando i segnali d’allarme che pure gli giungono dall’esterno e dall’interno. Fisso sul proprio illusorio obiettivo, il fraudolento smarrisce l’autentico senso della vita e smarrisce se stesso. Dedito all’irreale, le sue strutture psichiche si alterano e si corrompono, ed egli si allontana sempre più da quella fonte di Benessere che sgorga ininterrottamente dal nostro cuore, dall’anima.

Persone che hanno in tal modo sviluppato un ego ipertrofico e patologico, dalla determinazione tanto incrollabile come malvagia, sono sempre intente ad agire distruttivamente e a deprivare i loro simili (che essi non riconoscono come tali) dei loro diritti naturali e della loro libertà. La Bhagavad-gītā definisce questa categoria di esseri come asura, ovvero ottenebrati, e ci fornisce preziosissimi parametri per riconoscerli, non da insignificanti caratteristiche esteriori, ma comportamentali.[2] Ottenebrato non significa stolto. Al contrario, gli asura possono dar prova di grande intelligenza. La loro cecità consiste nel volgere l’intelligenza al male, che non è solo altrui ma anche proprio, per quel principio di indefettibile remunerazione di ogni azione che governa l’universo intero.

L’asura, astuto e anaffettivo, è abilissimo a travestirsi da amico e benefattore, ad adulare la vittima designata per conquistarsi la sua fiducia. Ma quando qualcuno è caduto in suo potere, getta la maschera e si mostra per quello che è.

Oggi, così come nei secoli passati, l’inganno risiede nella falsa affermazione che non vi siano alternative valide rispetto a quella ossessivamente promulgata. La proposizione che solo una visione sia valida costituisce il fulcro su cui si strutturano tutte le ideologie e rappresenta il grimaldello con cui forzare l’individualità delle persone, deprivandole della loro capacità di decidere, di compiere una libera e consapevole scelta. L’unica via è quella imposta dal regime; ogni alternativa sociale, politica, religiosa è violentemente combattuta e negata.

Quali sono gli strumenti che la scienza psicologica dello Yoga mette a disposizione per rispondere efficacemente ed evolutivamente al fenomeno fin qui descritto? Il primo passo è un parlare veritiero, una parola che corrisponda semanticamente al contenuto che si desidera veicolare. Questa bonifica del campo semantico rappresenta il primo mezzo della nostra rivoluzione.

Dalla parola, dall’insegnamento, dalla conoscenza, derivi il nostro coerente comportamento, che plasma la nostra personalità nelle sue profondità, consentendo di mantenerci fuori dal gorgo del conformismo nichilistico e degradante.

L’unità sociale sia dunque il frutto non di un’alienante omologazione di massa, ma di un dinamico quanto regolato convergere dell’infinita varietà degli individui in un progetto volto al benessere di tutti e di ciascuno, fondato sui principi universali descritti in tutte le tradizioni religiose autentiche e sintetizzati nel termine sanscrito dharma. Al distanziamento sociale digitalizzato, dobbiamo rispondere con la riscoperta dell’arte sublime delle relazioni, imperniate sul gioioso riconoscimento e l’entusiastica valorizzazione degli altrui talenti e qualità.  La varietà che converge armonicamente nell’unità; l’unità che rispetta e si arricchisce della varietà di cui è costituita; equilibrio tra individualità e collettività. Se aderiamo a questo sacro principio, nessuno potrà imporci modelli sociali liberticidi.

Al concetto di uguaglianza è urgente sostituire quello di equanimità, perché è necessario per un progetto sociale giusto e benefico per tutti, prendere in considerazione le molteplici peculiarità degli individui. L’unità è un principio fondante del cosmo, in ogni sua manifestazione, e, come insegna la Bhagavad-gītā (IV.13), i singoli partecipano costruttivamente a questa riscoprendo le proprie specifiche peculiarità che sono parte integrante e armonica del progetto.

Il nostro compito è mantenere e sviluppare la consapevolezza spirituale, e illuminare con la sua luce le attività dell’intelletto e della mente. È utilizzare quanto ancora è rimasto delle nostre libertà per contribuire al Bene di tutti, diffondendo questo messaggio di Amore, perdono e compassione. In tal modo possiamo aiutare molte persone a sottrarsi alla manipolazione. Dobbiamo mantenerci attivi in ogni circostanza, comunicare, organizzare programmi concreti. L’importante è mantenere sempre al centro delle nostre attività l’Amore per Dio e, in forza di quell’Amore, amare tutti i viventi. Anche quelli un po’ mascalzoni.

 

[1] Questo articolo prosegue il lavoro su yama e niyama, già intrapreso con quattro precedenti pubblicazioni e fondato sugli insegnamenti trasmessi da Marco Ferrini nel suo seminario “Le 10 Regole d’oro: Yama e Niyama. Questi i link ai precedenti articoli:

✔️ Ahiṁsā - Dalla non-violenza alla pratica dell’Amore 

✔️ Satya - La Verità è la cura

✔️ Asteya - Non rubare

✔️ Sublimazione dell’energia sessuale e riscoperta di sé – La pratica del brahmacarya

[2] Bhagavad-gītā XVI.7: “Le persone ottenebrate non sanno ciò che si deve e ciò che non si deve fare. In loro non c'è purezza, né comportamento corretto, né veridicità.”

 

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