Skip to main content

LA FORMA DELLO SPIRITO - L’in-finitezza della Pietà Rondanini tra la vita e la morte di Michelangelo | Terza parte


Daniele da Volterra, Ritratto di Michelangelo, 1544

Chiunque, alla fine della vita,
lasci il corpo ricordando Me soltanto,
raggiunge subito la Mia natura.
Non vi è alcun dubbio.
Bhagavad-gita 8.5

“Sentì certamente che questa volta la morte,
da lui tante volte guardata in faccia
stava per giungere, ma non si sbigottì.”
Giovanni Papini1

Il 13 febbraio 1564, domenica di carnevale, a Michelangelo non restano le forze per proseguire nella sua opera. Il giorno successivo cade malato e fu costretto dai medici a curarsi e a riposarsi. In quelle ore “volle presso di sé qualcuno di quelli che l’amavano, e chiese del suo Tommaso del Cavaliere e del suo Daniello da Volterra”2. Era con lui anche Alessandro del Francese, suo fidato servitore; mentre Urbino, garzone privo di talento ch’egli amo come un figlio, lo aveva già abbandonato per una morte prematura.
Era un freddo inverno romano, nella sua umile abitazione in Macel de’Corvi, zona popolare della città nei pressi del Campidoglio. L’anziano maestro compiva ormai i suoi 89 anni.
Le descrizioni di quel corpo magro e accartocciato, che nelle dimensioni pareva quello di un bambino; di quella barba lunga e di quelle mani grandi e dinoccolate che portavano il segno delle inimmaginabili masse di marmo ch’egli aveva scolpito a forza di mazzuolo e scalpello, commuovono per il carico di significato che espandono sulla vita di un gigante dalle minute dimensioni. In quelle mani c’è tutta la durezza del marmo; c’è tutta la visione e lo stato meditativo per cui con semplici arnesi si può penetrare il segreto di una ottusa pietra per trarne fuori forme viventi e pulsanti.
Così scrive in un’epistola al Vasari il suo caro amico e compagno d’arte Daniele da Volterra: “Quando s’ammalò, che fu il lunedì di carnevale, egli mandò per me, come faceva sempre quando che si sentiva niente. Come mi vide disse: O Daniello, io son spacciato, ma ti raccomando non m’abbandonar.” Ed egli non l’abbandonò, arrangiandosi a vivere in quella semplice casa. Poco dopo giunse Tommaso de’ Cavalieri ormai maturo padre di famiglia, ma sempre devoto al geniale maestro, che l'aveva amato. Erano trascorsi più di trent’anni dal tempo primo della loro intensa e nobile amicizia, eppure in quei giorni era al capezzale di Michelangelo: perché l’Amore quando è vero, è una fiamma che scalda ma che non si consuma.
Così trascorse i suoi ultimi cinque giorni di vita tra una seggiola di fronte al fuoco del camino e il letto, desideroso di ascoltare senza interruzione la narrazione della passione e del martirio di Cristo, che fino al giorno prima lo avevano ispirato nella scultura della sua ultima Pietà. È questo che ha voluto che gli leggessero sommessamente al momento di lasciare il corpo, poiché nutriva la sua anima e confortava il suo cuore. “Lo stesso Daniello che lo assisté fino agli ultimi momenti scrisse che nessuno passò mai di questa vita né con miglior sentimento, né con maggior devozione”3.  Il più nobile dei sentimenti umani, quello della bhakti, aveva segnato l’intera vita dell’uomo e lo accompagna nel momento del trapasso, e non poteva essere diversamente.
Era il 18 febbraio del 1564.

1 Giovanni Papini, Vita di Michelangelo nella vita del suo tempo, Garzanti.
2 Ibid.
3 Ibid.

  • Ultimo aggiornamento il .

INFORMAZIONI DI CONTATTO

  • (+39) 0587 733730

  • (+39) 0587 739898

  • (+39) 320 3264838

  • Via Manzoni 9A, Ponsacco (PI)
Copyright © Centro Studi Bhaktivedanta, tutti i diritti sono riservati. P.IVA 01636650507 C.F. 90021780508